Un altro venerdì pomeriggio di un’altra settimana. La poltrona nera su cui sono seduto sembra quasi una madre che culla il proprio figlio e che non vuole lasciarlo andare, per paura dei pericoli di cui il mondo è cosparso. Il televisore dinanzi al mio volto emana una luce fioca che appena illumina la stanza, cupa, nonostante sia venerdì pomeriggio e il sole sia alto nel cielo. Da quando sono piccolo non ho mai amato la luce, tanto meno quella del sole. La voce che fuoriesce dalla scatola sui cui sono incollati i miei occhi risuona nella mia testa come un’incantevole ninna nanna, che mi fa pian piano assopire in grembo alla mia mamma, nera e colma di rattoppi. Non posso far altro che aspettare, aspettare qualcosa, una sveglia che mi tiri fuori da quelle sabbie mobili che mi trascinano sempre più giù, sempre più giù.
La mia mente cerca di liberarsi da quella stretta tanto incantevole e da quel canto soave, cercando qualche via di uscita, qualche aiuto che mi tiri fuori da quel pantano.
« Cocenia! Test clinici hanno dimostrato che assumendo questo nuovo psicofarmaco, finalmente potrete restare a casa a godervi il vostro programma preferito, comodamente stesi sul vostro divano senza pensieri che vi passino per la testa! Dite addio a migliaia di problemi! Compra Cocenia! Eletto prodotto dell’anno! »
Su un comodino, ai piedi di un’abat-jour lampeggiante, ecco un paio di pacchi di quelle pillole, aperti e rigorosamente vuoti.
« Forse questa volta ho veramente esagerato… »
Per fortuna la mia mente è ancora in grado di intendere.
DRIIIN
DRIIIN
DRIIIN
Il telefono comincia a suonare, un inferno per la mia testa. Nel mio cranio quel suono rimbomba più e più volte, fino a diventare un suono insopportabile, un ronzio di migliaia di mosche che mi stanno assalendo mentre affogo in quel lago paludoso. Cerco di liberarmi, ma più penso e più vado a fondo. Non devo arrendermi anche se la mia volontà sta pian piano sfociando in un senso di resa, non ce la faccio più.
Con le ultime forze alzo la cornetta.
« P… pront…o »
« L’hai fatto di nuovo vero? Ne avevo il presentimento, vengo subito da te »
e sventolando bandiera bianca, lascio cadere la cornetta del telefono per terra, mentre le mie palpebre si chiudono, vinto dalle paludi, addormentato dalla ninna nanna in grembo alla mia mamma.
Il volto di una ragazza, occhi blu come l’oceano, capelli castani come il legno della più bella delle querce e labbra rosso chiaro come il sangue nelle arterie. A prima vista aveva l’aspetto della più bella delle ninfe. Mi lancia un bicchiere d’acqua gelida in pieno volto, chiudo gli occhi mentre poche gocce mi scendono dai capelli.
« La devi smettere cazzo! Per fortuna che ho una copia delle tue chiavi e posso entrare quando mi pare, altrimenti saresti bello stecchito da un pezzo! Sai che a te tengo molto…»
Il freddo adesso si impadronisce del mio corpo, ho la maglia completamente bagnata, probabilmente non era il primo bicchiere che mi era stato tirato addosso prima che rinvenissi.
« Dove tieni le altre pasticche? »
« Cosa vuoi fare? »
« Secondo te cosa voglio fare? Ti faccio uscire da questo tunnel maledetto! »
Silenzio. Non rispondo.
Ripensandoci quella sensazione di totale rilassamento non era poi così male in confronto al mio stato attuale: freddo, vestiti fradici e abbastanza intontito.
« Proprio non vuoi farne a meno, eh? Ti preparo una spremuta, forse così starai meglio… »
Si reca in cucina con fare altezzoso senza mostrare alcuna emozione. Me ne sto appollaiato sulla poltrona che adesso è diventata quasi uno strumento di tortura ai miei occhi, dalla madre che culla il suo bambino si è trasformata nella perfida matrigna che rende schiavo il proprio figlio illegittimo.
Una rivista aperta per terra ai miei piedi, in attesa del suo ritorno decido di dargli una sfogliata…
« Ahia! Che sbadata! »
Mi alzo diretto verso i fornelli per andare a verificare cosa sia successo, mentre mi balza per la mente un pensiero che…No, non posso averlo pensato.
« Cosa ti è successo? »
« Niente stai tranquillo, mi sono tagliata mentre sbucciavo un’arancia. »
« Aspetta, vado a prenderti un cerotto »
Mentre mi incammino verso lo scaffale che avrebbe dovuto contenere ogni tipo di medicinale, controllo se non mi stesse seguendo. Corridoio vuoto, con le finestre aperte e la luce che mette in evidenza ogni singolo granello di polvere che si disperde nell’aria.
Eccomi finalmente, apro l’anta ed ecco il paradiso. Potevano essere almeno una trentina di scatole di Cocenia quelle lì, le sposto rischiando di farle cadere ed ecco in fondo all’armadietto un pacco di cerotti che probabilmente risalgono a tre mesi fa. Non ne faccio molto uso. Giro i tacchi pronto per tornare in cucina, esco nel corridoio ed arrivo dove era avvenuto l’incidente. Ma non trovo nessuno. BUM
Una porta viene sbattuta.
CLICK CLACK
e chiusa a chiave.
« NO! Cosa stai facendo?! »
« Ti sto guarendo… »
Sento il frastuono di scatole cadere al suolo, ma ecco che un brivido mi scorre per la spina dorsale.
Il rumore era simile a quello di ciottoli che uno ad uno cadono in una pozza d’acqua e capisco subito a cosa è dovuto.
« NOOOO! I risparmi di una vita! »
Il rumore dello scarico, la porta che si apre e Lei che si dirige verso l’uscita.
« Arrivederci » mi fa, con quasi un’aria di sfida.
Prima la mia mente era in grado di intendere, adesso non è più in grado né di intendere né di volere.
Mi reco in cucina e osservo il lavabo. Per essere un piccolo taglietto aveva causato una gran perdita di sangue che si era riversata quasi interamente nel lavello. No, non posso farlo, devo smetterla!
Non sono più in grado di controllare il mio corpo, intingo il dito nel sangue, sento la porta d’ingresso aprirsi, sta per uscire.
Mi reco da Lei, con un dito insanguinato, pronto all’azione.
« Senti, volevo dirti che mi dispiace… »
« So che hai fatto la cosa giusta, in fondo… »
« Grazie… »
Il suo rapido si sposta rapidamente verso la mia mano
« Attento hai il dito sporco… ma che stai facendo? Oh mio Dio! »
Comincio a scrivere sulla parete, traccio un cerchio, due righe nel mezzo e un numero. Uno strano simbolo si staglia adesso sul muro mentre Lei guarda con un’espressione di disgusto mista ad una di stupore.
Rientra nell’appartamento correndo all’impazzata, arriva in bagno, prende un paio di lamette per la barba e si taglia i polsi con una ferocia inaudita ed indescrivibile.
Ritorno in camera mia e guardo sotto al letto, non li ha scoperti per fortuna.
Tiro fuori una scatola, la apro ed i miei occhi si illuminano. Scatole su scatole di quella bontà, quella sostanza che mi solleva dalle pesantezze della vita.
Ne prendo una decina in un sol colpo e me torno in grembo alla mia mamma, mentre penso al corpo di mia sorella Maria per terra nel mezzo di un mare di sangue.
Scritto da Gianpiero Andriulli
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