mercoledì 14 settembre 2016

Peace ep.12






Quando riaprii gli occhi, il peso dei pensieri che mi schiacciava sulla poltrona di pelle nera rendeva l'ambiente che mi circondava distorto, come se non lo riconoscessi a prima vista, e mi fossi destato in un luogo ignoto alla mia memoria. Lo sguardo annebbiato mi accompagnava mentre cercavo di mettere a fuoco ogni singolo oggetto nella camera in cui ero capitato: “Devo aver preso troppe di quelle maledette pillole, lo sapevo, devo smettere, oggi smetto... sì, devo smettere” pensai, mentre mi divincolavo con forza dalle braccia della mia mamma, che mi stringeva in grembo donandomi il suo calore e la sua protezione. Frastornato, mi alzai sforzandomi e, andando a sbattere contro il tavolino al centro della stanza, realizzai finalmente di trovarmi nella solita sporca stanza della solita casa della solita via della solita lugubre città. Una sensazione di rabbia mista a un'enorme senso di malinconia mi trascinò sempre più a fondo nelle sabbie mobili che mi stavano inghiottendo, ormai, da tutta la vita. Sentii un'altra pastiglia che scendeva nella mia gola, e un'altra, e un'altra ancora, ed ecco che il vetro attraverso il quale guardavo l'intera realtà andò in frantumi. Un'orribile immagine prese forma nella mia mente. Lasciai cadere il pacco di pillole che stringevo nella mano destra sul pavimento e mi precipitai verso il bagno: ed eccola lì.
Il corpo di mia sorella Maria che sguazzava in un'enorme pozza di sangue si stagliava davanti ai miei occhi. Un imponente senso di debolezza si appropriò del mio corpo e quasi caddi svenuto al fianco di quel cadavere, la cui vista mi trasmetteva un sentimento di infinita incoscienza, di colpevolezza, misto ad un immenso sconforto al quale fu accompagnato il lento scendere di una lacrima sulla guancia sinistra del mio volto.
Mi chinai sulla figura distesa sul pavimento di marmo: gli occhi erano ancora spalancati e la bocca leggermente aperta. Le carezzai la guancia pallida, mentre le mie scarpe, immerse nel sangue, si macchiavano di quel liquido rosso che aveva ormai inondato l'intero pavimento.
All'improvviso un fragoroso rumore rimbombò nella mia testa: BUM BUM BUM... BUM BUM BUM... qualcuno stava bussando alla porta. Mille pensieri mi passarono per la mente in quei pochi secondi: “Chi è adesso? Chi chi chi? E ora? Che faccio? Potrei far finta di non essere in casa...” BUM BUM BUM... “Lasciatemi in pace!” avrei voluto urlare “Che volete da me!”.
BUM BUM BUM... mi slacciai le scarpe pregne di sangue e le posai in un angolo della stanza, uscii, chiusi la porta a chiave che nascosi nella tasca e corsi ad aprire:
«CHI É?» gridai, quando ero ancora nel corridoio che portava alla camera di ingresso
«Sono Giovanni!» rispose una voce al di là della porta, che continuava a tremare incessantemente a causa dei colpi che il visitatore assestava sul legno ormai decrepito.
A quelle parole trasalii. Mi ghiacciai in mezzo alla lunga stanza per qualche secondo. Un brivido corse lungo la spina dorsale, e la vista si annebbiò per qualche secondo:
«A.. a... arr-ivo» balbettai, con il fiato in gola. In quel momento la mia mente fu invasa da un pensiero che mi fece accasciare alla parete ingiallita del corridoio. Le scatole di Cocenia! Non potevo lasciarle dov'erano. Mi fiondai verso la cucina, raccolsi tutti i pacchi di quelle pillole che mi stavano prosciugando, e li gettai nella spazzatura. Mi recai ad aprire la porta, pregando che nessuna prova della mia colpevolezza fosse sfuggita alla mia rapida analisi.
BUM BUM BUM
Levai il chiavistello, mentre la porta continuava a vibrare incessante, e la figura di Sergio si stagliò impetuosa di fronte alla mia:
«Michele!» mi salutò Giovanni appena aprii la porta
«Cosa c'è?» risposi freddamente
«Tutto bene? Sei pallido!»
«Non sto molto bene...»
«Ascoltami, mi trovavo a passar di qua e ho deciso di fare un salto per avvertirti che tua sorella è da un po' che non si fa sentire... stanotte non è nemmeno tornata a casa. Ma non mi fai entrare?» disse stizzito Giovanni, mentre mi tiravo indietro lasciandogli lo spazio per entrare:
«Allora, tu ne sai qualcosa?»
«Nulla»
«E non ti preoccupi nemmeno un po'?»
«É mia sorella, so com'è fatta. É grande ormai, sa cavarsela da sola»
“Lo sa!... Non dirò nulla! Non mi estorcerà una parola di troppo...”. Pensai, mentre guardavo i suoi occhi scuri, che mi divoravano al loro interno e mi lasciavano cadere in una sorta di abisso composto da tutte le mie più nascoste ossessioni e paure.
«Posso offrirti un caffè?» mi rivolsi a Giovanni con un'aria insolitamente generosa
«No, sto a posto così... piuttosto, potrei usare un attimo il bagno?»
Seguì il silenzio per qualche secondo.
«Ehm... n-no» balbettai «alcune tubature si sono guastate proprio ieri ed è chiuso fino a che non arriverà qualcuno a ripararlo» accennai, gesticolando qua e là con le mani, preso dall'agitazione.
Giovanni strizzò gli occhi. Il suo volto si imbronciò ed il suo tono di voce cambiò improvvisamente:
«Un bicchiere d'acqua me lo offri almeno?»
«Certo!»
Entrambi camminammo lentamente verso la cucina. I passi risuonavano nel corridoio, mentre una flebile voce proveniva dal televisore che era ancora acceso dalla notte precedente. Arrivati in cucina, non si poteva fare a meno di notare il disordine imperante nell'ambiente. Una grande pila di pentole, piatti e posate si trovava nel lavabo, pronta per essere lavata. Residui di cibo e briciole di chissà cosa invadevano i mobili ed i fornelli:
«Scusa il disastro, non ho quasi mai ospiti...» dissi, cercando di distrarre Giovanni, che stava osservando minuziosamente ogni angolo della stanza. Non rispose.
Aprii la credenza, agguantai un bicchiere ed in fretta mi recai verso il lavandino: “Presto, vai via! Vattene... fuori dai piedi!”.
«Perdonami, ho finito l'acqua in bottiglia...» cercai di scusarmi, dopo aver riempito il bicchiere.
«Non preoccuparti» rispose Giovanni insolitamente tranquillo, ed in un sol sorso trangugiò l'intero contenuto del bicchiere.
«Mentre bevevo, mi era venuta in mente una cosa che dovevo dirti...» si pronunciò all'improvviso Giovanni... tutto tacque per qualche istante, fino a che non continuò, dopo aver sospirato profondamente: «Peccato che me lo sia dimenticato, sarà la prossima volta. É ora che vada.».
A quelle parole mi sentii enormemente più leggero, quell'incubo stava finalmente per finire. Dopo che Giovanni ebbe posato il bicchiere, lo accompagnai velocemente alla porta d'ingresso, quasi spingendolo per la troppa foga, aspetto al quale anch'egli fece caso ed infatti si pronunciò in un piccola smorfia di fastidio, appena arrivati sull'uscio.
«Ciao Michele, scommetto che ci rivedremo presto...»
«Ciao!» risposi, quasi sbattendo la porta, ma cercando di mantenere il più possibile il controllo delle mie azioni.
Mi sedetti sulla poltrona nera su cui ero solito passare le mie giornate, con la TV davanti a me che emetteva suoni a cui nemmeno prestavo attenzione, a causa delle ansie di cui mi facevo carico: “Lo sa! Lo sai sicuramente!” pensai “Glielo si leggeva negli occhi... e poi, perché avrebbe dovuto dire «scommetto che ci rivedremo presto»... sa già tutto!”. Estrassi dalla tasca gli ultime pillole che mi erano rimaste e le ingoiai in un sol colpo. Mi alzai di scatto, dirigendomi verso la cucina per controllare che per terra non ci fosse nulla che avrebbe potuto incastrarmi. Osservai con cura ogni mattonella, ogni angolo buio, ogni mobile. Nulla.

Tranquillizzato e stanco, tornai nel salone, passando per il corridoio ed eccolo lì. I miei occhi si posarono su qualcosa che mi fece rabbrividire...: un cerchio, due righe ed un numero erano disegnate, rosso sangue, sulla parete del corridoio.

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